domenica 2 dicembre 2007

TUTTI I PALLONI D'ORO ROSSONERI



GIANNI RIVERA (1969). Mitico simbolo rossonero per 19 stagioni, arriva ragazzino nel 1960 e lascia da capitano pieno di medaglie nel 1979, dopo lo scudetto della stella. Geniale regista vecchio stile, uomo gol e assistman di livello internazionale, ha regalato ai fan del Diavolo numeri unici, dribbling e giocate indimenticabili, assist al bacio, lanci di precisione svizzera. Il suo carattere forte lo ha spesso portato in polemica col palazzo negli anni in cui il Milan società era debole. Il 1969 è stato l’anno d’oro, coronato da gol e magie nel 2° trionfo in Champions prima del successo in Intercontinentale. I numeri parlano per lui: oltre 160 gol, 4 scudetti, 2 Champions, 4 Coppe Italia, 2 Coppe delle Coppe, 1 Intercontinentale. Forse il più grande giocatore italiano di sempre.



RUUD GULLIT (1987). Un ciclone olandese arrivato come simbolica ciliegina” sulla ricostruzione firmata Berlusconi. Gullit è simpatico e trascinante, in campo e fuori. In Italia scoppia la Gullitmania, tutti innamorati delle sue treccine e delle sue prestazioni stellari. Poteva giocare all’ala come da centravanti, al PSV aveva fatto anche il libero, al Milan segna gol fondamentali e incanta con sgroppate possenti e letali. Fisico bestiale, classe e concretezza: Gullit mette la firma sui grandi trionfi del’era Sacchi. A metà anni ’90 passa alla Samp prima di chiudere nel Chelsea, ma nonostante qualche polemica il Milan gli è sempre rimasto nel cuore.



MARCO VAN BASTEN (1988, 1989, 1992).
Il cigno, il più grande e sfortunato giocatore della storia rossonera. Il destino ha voluto che le magie create da questo bomber sfondarecord si esaurissero a soli 29 anni a causa di caviglie scricchiolanti, fatte di cristallo come la classe elegante di Marco. Uno spettacolo infinito che però si è potuto ammirare per meno tempo di quanto ne avrebbe meritato. Van Basten arriva dall’Ajax nel 1987, contribuisce al primo scudetto con 3 gol perché si rompe da subito ma poi esplode fragorosamente e infila messi di reti a valanga. 2 volte è capocannoniere, e a fine carriera conta 124 centri rossoneri. Un bomber infallibile, che infilava doppiette, triplette e poker con scioltezza. La Coppa Campioni ’89, vinta da goleador, lo vede doppiettista in finale. Vince 3 palloni d’oro, e se non si fosse fermato avrebbe pure raddoppiato il numero. In un 4-0 al Goteborg (1992) segna tutti e 4 i gol, esibendo tutto il suo repertorio sontuoso: rovesciata da urlo, rigore chirurgico, incornata possente, guizzo da rapace d’area. Aveva un fisico da corazziere e avrebbe potuto essere un centravanti “solo” di sfondamento, invece sfruttava appieno una tecnica sublime, danzando con splendida essenza tra i pestatori avversari. Nell’Intercontinentale ’90 firmò tutti e tre gli assist gol, a conferma che avrebbe potuto essere anche un regista illuminato. Sarebbe stato quello il suo futuro, per prolungare la carriera arretrando il raggio d’azione. Invece il fato ce lo ha tolto nel pieno della sua voglia di gol, mettendolo troppo giovane su un piedistallo nel museo delle leggende, sull’Olimpo del calcio sognato.



GEORGE WEAH (1995). Poderoso Leone d’Africa, il Van Basten nero era meno prolifico dell’olandese ma ugualmente decisivo e altruista come assist man. Scattava veloce e felino, aprendosi varchi con la sua potenza di fisico e di cuore. Da buon africano è solare, simpatico, altruista, benvoluto. Dopo aver girato a lungo nel suo continente, esplode in Francia (Monaco, PSV) e al Milan firma subito lo scudetto ’96, dopo aver vinto il pallone d’oro nel dicembre precedente, primo non europeo a entrare nella lista dei premiati. Generoso verso la sua Liberia (organizza a sue spese le trasferte della nazionale, di cui è capitano e allenatore), è amatissimo dai fan rossoneri. Brilla anche nelle due stagioni dure per il club, è ancora protagonista nello scudetto ’99. Incompreso da Zaccheroni, lascia il Milan nel gennaio 2000 e si avvia verso la parabola discendente: Chelsea, Marsiglia, Manchester City e, in Arabia, Al Jazeera. Un giramondo col cuore rossonero.



ANDRIY SHEVCHENKO (2005). Vento di passioni che spira dall’est. Incanta l’Europa da ragazzino con la Dinamo Kiev, arriva al Milan ventunenne e subito conquista l’Italia: segna come Van Basten, è tecnico, veloce, imbattibile nello scatto e sembra indistruttibile nel fisico. Sovieticamente freddo sottoporta, terribilmente latino nelle movenze, nella classe, nella fantasia. Un centravanti, un bomber, che nei primi 3 anni si carica sulle spalle una squadra in difficoltà e fa sognare San Siro, rievocando il mito del Cigno olandese. Nell’anno del ritorno del Milan tra le grandissime d’Europa vive un anno di passaggio, supera il primo grave infortunio e matura nel gioco. Non si limita più “solo” ai gol, ma si completa in tutto e per tutto divenendo un fuoriclasse totale. Diventa decisivo, coi gol, nella cavalcata europea, e in finale segna il rigore decisivo alla Juve. Coi suoi occhi da cerbiatto, il suo cuore che batteva assieme a tutti i cuori rossoneri della terra. Poi la sua stagione più bella, dirompente, da bomber feroce, poliedrico, dal repertorio infinito: 24 gol, ancora goleador principe e stella.-scudetto. Nelle due ultime stagioni rossoenre segna ancora cifre di gol mostruose, alza il pallone d’oro 2005, si inventa europoker memorabili, sceglie i derby come massima esltazione, diventa vicecapitano, entra nella leggenda della società. Poi purtroppo i soldi e la famiglia lo hanno fatto uscire di testa: il principe dell’est, il ragazzino biondo, timido e buono, quello col sorriso innocente e gli occhi da cerbiatto, diventò l’uomo “traditore”. Scelse i danari del Chelsea, e tra tribune, rimpienti, nostalgie, lacrime e prestazioni da dimenticare sta ancora vivendo il suo incubo londinese. Perso il gusto del gol, perso il suo essere fenomeno. Ora è triste, Sheva, sembra in declino, legnoso e abulico. Sogna il suo Milan, ma non è facile la reunion. Ha sbagliato a scegliere, ha rinunciato al suo regno ma si è tuffato in un buco nero. In fondo, però, da qualche parte, sappiamo che in lui offia ancora forte quel gelido, sovietico, vento di passione.


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